venerdì 27 gennaio 2012

Buon Anno Stronzo

L’ultimo giorno dell’anno è festa.
Tutti i popoli della terra festeggiano l’arrivo del nuovo anno avendo la speranza che sia migliore o uguale al passato.
Come ogni anno, la famiglia festeggia la notte di San Silvestro fuori casa ed a ogni capodanno, poco prima della mezzanotte, il cesto dei panni sporchi e il termosifone del bagno di casa si parlano.
Il cesto di vimini è il primo a prendere la parola alzando leggermente il coperchio:
“Ed anche questo anno di merda se ne sta andando per fortuna.”
Il termosifone allarga leggermente le sue feritoie:
<<Io sono talmente incazzato che sto scaldando tutto l’ambiente ed è grazie a me che tu te ne puoi stare qui tranquillo al calduccio.>>
“Sai quanto cazzo me ne frega di starmene al caldo. Io starei bene anche fuori sul balcone con la temperatura sotto lo zero. E poi non mi toccherebbe sentire le tue solite pallose lamentele di fine anno.”
<<Non è colpa mia se quest’anno mi tocca lavorare come un dannato perché l’inverno è più rigido che mai. Il padrone mi fa lavorare anche più di otto ore al giorno!>>
“Sei veramente un rincoglionito! Io lavoro tutto il giorno e tutti i giorni. Quegli zozzi dei padroni mi buttano dentro la roba sporca tutti i santi giorni e poi a volte ravanano dentro di me per riprendersi qualcosa ed io, in quei casi, vorrei potergli vomitare addosso!”
<<Ed io? Tu non hai idea dell’acqua putrida e puzzolente che gira dentro di me…>>
“Guarda che lo so benissimo che fai schifo e che sei più zozzo di me. Tra le feritoie ti fanno pure il nido i ragni!”
<<Non è vero. Sei proprio un collezionista di mutande sporche e puzzi pure! Sai bene che la famiglia non potrebbe fare a meno di me mentre te…>>
“Io sono utile quanto te brutto vecchio ferro ricolmo di acqua marcia! Senza di me la casa sarebbe sempre in disordine e poi tu lavori solo qualche mese l’anno mentre per il resto del tempo non fai una beata fava!”
<<Questo perché il mio lavoro è molto più importante del tuo! Tu non ti devi dimenticare che la famiglia può sostituirti in qualsiasi momento. Ti manca pure un piccolo pezzo del coperchio. Se arriverà una famiglia nuova o se decidono di cambiare l’arredamento tu sei fottuto!>>
“Sei solo un ferro vecchio che dovrebbe starsene zitto!” Nel mentre si odono i fuochi d’artificio della mezzanotte e il cesto continua: “Comunque volevo solo farti gli auguri di buon anno, stronzo!”
<<Anche a te, e so già che dal primo dell’anno il padrone soffrirà d’incontinenza quindi auguri!”
Dopo un attimo di silenzio il cesto riprende la parola: “Che dici? Facciamo gli auguri anche a lui?”
Il termo risponde: <<Direi di si. Se li merita…>>
“<<Auguri di buon anno>>” dicono entrambi con rispetto.
*Fanculo stronzi!* ribatte il cesso alzando la sua tavolozza.
 
Buon Anno Stronzo di Mattia Bellunato  26/12/2010 (Tutti i diritti riservati).

mercoledì 11 maggio 2011

Tre Innocenti Sottoterra

C’era una volta un grande cortile circondato da palazzine in cui pochi bambini si trovavano per giocare a pallone anche nei giorni grigi e plumbei tipici delle prime piogge estive.
Il più grande di questi bambini si chiamava Marco, alto, snello e serio. Con il suo tipico sguardo accusatorio, osservava attentamente quello sbruffone di Mario dato che doveva sopportare ogni giorno le sue cialtronerie pur essendo il suo miglior amico.
Mario era un ragazzino di quattordici anni, già molto robusto e muscoloso per la sua età e con qualche cenno di barba: “Ciao capo, oggi sono in gran forma per la missione!”
“Quante volte ti ho detto di non chiamarmi capo. L’hai preso?” Mario alzò un sopracciglio quando il suo compare fece vedere lo zaino dietro di sé: “Certo che l’ho preso! Eccolo qui!” Il ragazzino tirò fuori un piede di porco: “Cosa credevi? Che non ne avessi il coraggio? Però dobbiamo agire oggi perché se domani non lo riporterò al suo posto nel garage di mio nonno saranno grossi guai.”
“Non temere.” L’alto ragazzino afferrò il grosso arnese e con sguardo serio guardò oltre il suo amico: “Faremo in fretta, prima che si metta a piovere. Per fortuna sono arrivati anche quei due.”
Maria e Marcello erano gli ultimi due della compagnia ed erano fratelli, entrambi biondi, entrambi magri e piuttosto intelligenti per la loro giovane età. I loro caratteri erano però agli opposti: la prima era considerata da Marco la più furba e loquace del gruppo mentre il piccolo era spesso apatico e mansueto e, per questo, doveva sopportare tutte le angherie di Mario.
“Ciao ragazzi.” Marco salutò per primo facendo così sorridere Maria che rispose al saluto mentre il piccolo Marcello fece solo un lento cenno con la mano.
“Anche oggi con quest’aria così mogia?” Mario prese con forza il collo del piccolo per grattargli la testa: “Su, sveglia, che oggi siamo in missione!”
“Uff, lasciami!” Marcello diede invano uno strattone per liberarsi mentre Maria ormai si era abituata a vedere quella scena e si impensierì quando vide la spranga in mano all’amico: “Missione? Marco, di quale missione sta parlando?”
Il più grande si tolse il proprio zaino dalle spalle e sorrise: “Andremo ad aprire il tombino della strada dietro la casa abbandonata. Lo abbiamo deciso ieri dopo che siete andati via.” Marco afferrò il piede di porco: “E stamattina Mario è riuscito a recuperare questo da suo nonno, per cui siamo pronti.”
Il ragazzino aprì poi il proprio zaino per nascondere l’attrezzo e tirò fuori un piccola torcia elettrica a manovella che accese: “Mario smettila di tormentarlo adesso!” Il grosso ragazzo venne abbagliato dalla potente luce e lasciò la presa: “Va bene. Va bene.”
Marco si rimise lo zaino in spalla: “Forza. Andiamo a vedere cosa nasconde quella cosa.” Però Maria gli si mise davanti ragionando ad alta voce: “Aspetta un attimo. Siamo già entrati nella casa abbandonata ed abbiamo già visto che non è un granché, è vuota.”
“Tu hai ragione, ma non puoi sapere che cosa ci sia nascosto là sotto!” Il più grande sorrise in maniera beffarda, ma la ragazzina lo guardò ad occhi stretti e con i pugni appoggiati sui propri fianchi: “E cosa dovrebbe nascondere secondo te un tombino?”
“È quello che siamo intenzionati a scoprire! Giusto Mario?” Marco guardò il grosso ragazzo che aveva ripreso a punzecchiare il più piccolo tenendolo per il codino dei capelli: “Giusto!”
“Allora andiamo, prima che piova!” Con un cenno della mano invitò i compagni a salire sulle proprie biciclette.
L’odore umido di pioggia ed di asfalto si fece sempre più forte mentre le plumbee nubi incominciarono a scontrarsi sempre più al di sopra delle teste del quartetto che posò le biciclette poco lontano dalla casa abbandonata. La casa abbandonata era il nome usato da Marco e Mario, ma in realtà l’enorme palazzina era un cantiere fermo ormai da molti mesi e persino le impalcature erano state tolte. Il cancello era sempre chiuso da un grosso catenaccio d’acciaio, ma i ragazzini sapevano come valicarlo per poter recuperare il pallone nei pomeriggi di gioco.
Il tombino era seminascosto in un incrocio della strada in cui nessuno passava mai ed era qualcosa di troppo allettante per il duo di ragazzini.
Arrivati sul bordo dello strano tombino di ghisa Marco svuotò il proprio zaino al suolo da cui uscirono due piccole torce elettriche a manovella e il piede di porco e guardò il suo compare: “Abbiamo altro con noi?” Mario si fece avanti ed allargò le braccia: “Io nello zaino non ho altro che il pallone.”
“Siete due stupidi!” Maria li sgridò vedendo quanto fosse piccolo il tombino: “Non vorrete veramente entrare lì dentro?” Marco la guardò con aria di sfida: “Certo!” Poi prese una propria torcia e l’accese: “Ma prima vediamo se Mario è, o non è, in grado di aprirlo!” Quel tono strafottente fece saltare i nervi al robusto ragazzino che afferrò immediatamente il piede di porco: “Certo che ne sono capace. Guarda!” Mario provò con difficoltà a conficcare il piede tra il bordo e l’asfalto e un primo momento non ottenne alcun risultato: “Aspettate solo un attimo.” Con forza puntò la spranga sul bordo del tombino e fece leva con il proprio piede per spostare il chiusino di pochissimo: “Adesso datemi una mano!!” I tre maschi afferrarono insieme il pesante disco di metallo per trascinarlo sull’asfalto.
“Che puzza!” Maria si mise una mano sul viso: “Io lì dentro non ci voglio neanche guardare!” La bambina indietreggiò e si mise a braccia conserte.
Mario la schernì: “Non è certo roba da femminucce. Vattene a casa!” Marco lo guardò male: “Lasciala stare, pensa piuttosto a prendere la torcia di fianco a te! Puntala lì dentro.” Il piccolo Marcello si mise una mano sul viso per chiudersi il naso e per proteggersi la bocca mentre Mario fece luce nella cavità ed illuminò degli appigli di metallo: “Sembra si possa scendere là sotto.”
Marco percepì la voce tremolante dell’amico e lo guardò sorridendo: “Hai paura?” Marco nascose al meglio la propria inquietudine: “Certo che no, è solo che mi sembra un posto davvero schifoso. Perché non facciamo entrare Marcello per primo? Così se ci saranno guai sarà il più facile da tirar fuori!”
“Cosa? No. No!” Marcello si allontanò per raggiungere la sorella: “Non voglio!”
“Siete due codardi!” Marco mise un piede dentro il buco: “Entrerò io per primo, ma voi verrete giù con me o altrimenti potete scordarvi di giocare ai miei videogiochi!” Il giovane afferrò l’altra torcia e scese lentamente facendo ben attenzione a non cadere: “Non c’è nulla da temere, a parte la puzza. Venite.” Sorrise e si legò un fazzoletto sul naso come se fosse un bandito.
L’odore nauseabondo di liquame e poltiglia divenne sempre più forte, ma il trio non smise di avanzare nelle tenebre in fila indiana. La galleria di cemento e mattoni era piuttosto piccola con numerose tubazioni che la percorrevano scomparendo poi nei meandri del soffitto.
Marco era il primo ad avanzare: “Rimanete dietro di me e non prendete iniziative, miraccomando.” Mario gli era subito dietro infastidito da Marcello che si teneva alla sua felpa per paura di perdersi.
Le luci delle torce illuminarono ogni angolo ed ogni anfratto del corridoio puzzolente, poi all’improvviso un rumore sordo arrestò il trio che si mise all’erta. Marco e Mario illuminarono ogni tubatura sopra di sé e poco lontano un tubo aperto scaricò litri e litri di acqua sporca nel canale di scolo inondando l’aria di nuovi odori sgradevoli.
“È solo uno scarico, fifoni.” Marco si voltò verso i compagni nascondendo al meglio la propria tensione, poi da dietro si sentì la voce strillante di Maria: “Ehi! Tutto bene laggiù? Sbrigatevi che tra poco inizierà a piovere. Uscite da lì!”
“Non adesso!” Marco fece la voce grossa: “Dobbiamo solo vedere fin dove porta questo passaggio!” Il ragazzino fece luce davanti a sé e vide una deviazione del percorso verso sinistra: “Per di qua saremo quasi sotto alla casa abbandonata. Seguitemi e non allontanatevi.”
Svoltato il nuovo corridoio, Marco s’irrigidì di colpo quando la luce illuminò una grossa massa informe di pelo mentre il piccolo Marcello non vide nulla a causa di suoi grossi compagni davanti a sé: “Che cosa c’è? Perché ci siamo…”
I due ragazzini più grandi fuggirono via all’impazzata inseguiti da un fiume di pantegane e, per la foga, Mario perse la propria torcia che cadde e venne calpestata sotto lo sciame fino ad arrivare ai piedi di Marcello pietrificato dalla paura.
Dopo qualche secondo, tra squittii ed urla, Marcello riuscì a disotgliere il proprio sguardo dalla luce della torcia per terra e, senza pensar nulla, si chinò immediatamente per afferrarla prima che potesse spegnersi e lasciarlo completamente al buio tutto solo. Il piccolo, per paura, incominciò a puntarla in ogni direzione. Il suo istinto lo indusse a tornare indietro, ma le grida degli amici e l’orribile immagine dei topi lo bloccarono. Quindi fece luce nella direzione opposta e vide che lo scolo delle acque putride scorreva lungo tutto il passaggio che continuava nelle tenebre. Mosse i primi passi verso il tetro corridoio gocciolante di acqua sporca, evitando il lerciume delle pareti e continuò ad illuminare ogni dove. Poi lo scolmatore svanì e al fondo del corridoio vide un profondo baratro. Tra i rumori di scarico a cui si era abituato, decise di avvicinarsi con lentezza al pozzo. Si affacciò per vederne il fondo e gridò con tutte le sue forze.

“Vai immediatamente a recuperare mio fratello!” Maria era furiosa ed alzò una mano come per schiaffeggiare Marco, ma attese un cenno di diniego per agire: “Tu l’hai trascinato là dentro ed ora tu lo andrai a prendere, subito!”
Il più grande dei ragazzini era ancora scosso dallo schifo, ma Maria sapeva spaventarlo ancora di più e fece un cenno con la testa a Mario di tornare nelle fogne, ma l’amico, visibilmente impaurito, scosse la testa. Poi si sentì l’urlo di disperazione di Marcello.
Maria e Mario divennero pallidi come la morte mentre l’adrenalina di Marco lo indusse a tornare nelle fogne: “Vado!” Riaccese la propria torcia e ritornò nel corridoio e vide il ragazzino corrergli incontro: “C’è qualcuno. C’è qualcuno là sotto!” Marcello abbracciò con forza l’amico mentre il suo cuore batteva all’impazzata e Mario cercò di calmarlo in qualche modo: “Qualcuno? C’è una persona?” Il bambino alzò lo sguardo ricolmo di lacrime ed annuì: “Si.”
“Presto usciamo di qui. Tua sorella ti aspetta.” Il più grande aiutò il bambino a risalire su per gli appigli così da poter riabbracciare la sorella. Marco la guardò con gli occhi sbarrati e poi fece per riscendere il tombino: “Marcello dice che c’è qualcuno là sotto. Io vado a vedere.” Maria raccolse il proprio fratello: “Non può essere. Lascia stare, sta per piovere e Mario ha preso le sue cose e se ne andato via per la paura.”
“Non mi interessa. Farò in fretta. Se volete, potete tornarvene a casa!” Marco riscese il cunicolo e ritornò nel corridoio in fretta fino a raggiungere in pochi minuti la deviazione dove vide il pozzo: “C’è qualcuno qui? C’è nessuno?!” Il suo cuore iniziò a battere all’impazzata quando si volle avvicinare alla cavità oscura. Si affacciò con lentezza e il suo respirò si fermò quando vide una figura umana sbucare dalla parte opposta nel fondo del pozzo. Una figura umana indefinita lo guardava come se fosse a testa in giù, faccia a faccia: “Cosa…” La figura era immobile e quindi Marco ritrovò un minimo di lucidità per prendere la torcia accesa e puntarla verso l’ombra, ma la luce venne riflessa e ne rimase accecato: “Maledizione!” Quindi la puntò verso una parete del pozzo e vide meglio la figura nera: sé stesso. Il riflesso dell’acqua del pozzo l’aveva ingannato, ma sentì un gran chiasso di pioggia sopra di sé che riaccese tutte le sue ansie: “Ora devo uscire di qui, prima che la pioggia mi sommerga.” Mario si ritrovò tutto solo sotto la bufera.

Tre Innocenti Sottoterra di Mattia Bellunato 05/05/2011 (Tutti i Diritti Riservati)

venerdì 29 aprile 2011

Anziani nel 3183

Il signor Eraclito era quasi un centenario, ma portava bene i suoi anni ed uscì da casa sua da solo che era primo pomeriggio.
L’anziano volle uscire presto per potersi godere la splendida giornata di sole primaverile dopo due giorni di pioggia incessante. Si sentiva fortunato a vivere nel proprio alloggio al confine con i parchi aperti e quindi volle passeggiare un po’, prima di presentarsi all’appuntamento.
Elegantissimo per l’occasione, la sua mente divagò durante la rilassante camminata cittadina con il suo passo lento accompagnato dal ticchettio del proprio bastone di olivo.
Nel pomeriggio avrebbe potuto finalmente incontrare dal vivo, dopo più di trent’anni di lontananza, uno dei suoi più cari amici: il signor Eleto Tsira o più semplicemente Eleto per gli amici.
L’appuntamento era stato fissato vicino al quarto parco della città d’Argento, non troppo distante dalla sua abitazione.
Eleto sarebbe dovuto arrivare in città con i carrelli veloci, dato che abitava piuttosto lontano, nei pressi della capitale.
Eraclito attraversò il confine del parco con un certo piacere data la minima quantità di traffico in quell’ora. Il verde parco era semideserto e il venerando si mise comodo su di una panchina e si rilassò per una mezzora ascoltando della musica rilassante dal suo cappello convertita la settimana prima da suo figlio.
Al termine del ventesimo brano musicale diede un’occhiata al suo multi – braccialetto per controllare l’ora e se per caso suo figlio avesse cercato di contattarlo.
Quindi si avviò lentamente verso il luogo dell’appuntamento.
Tutto intorno a lui, il grande giardino si arricchiva di nuova gente, soprattutto adolescenti ed anziani. Sotto i suoi occhi soddisfatti, in un grosso prato, una pattuglia delle forze dell’ordine prese in arresto qualche giovane per riportarlo nella propria scuola.
Eraclito raggiunse il luogo dell’appuntamento: un vecchio tratto di autostrada asfaltata secoli fa che ora era adibita a parcheggio dei carrelli per chi si volesse fermare nella zona verde.
Il vecchio si rimise comodo su di una panchina limitrofe, spense la musica classica e, in attesa dell’amico, si soffermò ad osservare verso l’alto le linee di trasporto che scorrevano veloci nelle due direzioni di viaggio.
In quella zona circolavano solo le lente linee cittadine, le sole che non intimorivano il vecchio a differenza di quelle commerciali ed extraurbane capaci di trasportare carrelli anche a velocità straordinarie. “Quelle nuove linee ti potrebbero portare via la testa…” borbottando gli sfuggì una frase dai propri pensieri, poi capì di essere completamente solo e continuò: “È l’ora. Dovrebbe arrivare da un momento all’altro.” Il suo sguardo si spostò verso l’orizzonte tra i palazzi altissimi divisi dalla via di trasporto e vide spuntare un carrello carico con sopra seduto il suo amico. Eraclito sorrise e si alzò in piedi togliendosi il cappello. Avanzò lentamente, ma poi diede una rapida occhiata di preoccupazione al suolo nel caso avesse superato erroneamente la linea gialla
d’atterraggio.
Il carrello semitrasparente si distaccò dal cavo di trasporto superiore a quello di parcheggio e rallentò moltissimo fino fermandosi in uno dei tanti posti adibiti. Eleto era al settimo cielo quando scese dal veicolo: “Eraclito, vecchio mio!”
I due si abbracciarono con foga e ad Eraclito s'inumidirono gli occhi dalla gioia: “Anche a me fa molto piacere rivederti vecchio mio. Uff. Non così forte!” Scherzò.
Eleto era un vecchietto poco più giovane, ma quando i due lavorarono insieme per la produzione delle linee di trasporto decise di farsi impiantare dei bio – potenziatori nelle braccia: “Oh scusami Eraclito, a volte, per l’emozione, mi risulta difficile utilizzare con delicatezza le mie braccia sempre giovani. Sei vecchio signor Eraclito! Sei proprio un anzianotto!” L’amico esplose in una fragorosa
risata di piacere: “Che bello rivederti!”
Eracleto si toccò il costato dolorante, ma non smise di sorridere: “Vale anche per me, ma tu ti fidi ancora a salire su questi cosi volanti?” Il decano puntò il proprio bastone verso una carrucola che permetteva al cavo della linea di tornare indietro.
“Certo. Io sono anni che uso il carrello per spostarmi, dai tempi in cui si diffusero dalla capitale.
Oramai gli altri mezzi non li usa più nessuno, neanche per il trasporto delle merci. Non dirmi che tu non sei mai salito questi nuovi modelli perché non ci credo.” Eleto guardò l’amico ad occhi stretti, ma l’affezionato alzò il naso in segno di superbia: “Si. Si, ma fu una pessima esperienza. Io preferisco affidarmi alle mie vecchie e care gambe e al mio fedele bastone.”
Il più giovane osservò il bel bastone di legno intarsiato: “Si, ho visto, ma perché non ti fai innestare delle beta – gambe? Al giorno d’oggi sono a portata di tutti e non sono più interventi invasivi come ai nostri tempi. Dopo neanche una settimana di riabilitazione potrai di nuovo tornare a camminare e a correre come quando eri giovane. Pensaci.”
Eraclito sbuffò: “No. Non mi interessa proprio. Nostro signore mi ha fatto con queste gambe e queste mi tengo anche se sono lente. Non mi piace tutta questa biochimica che va di moda al giorno d’oggi. Ora sediamoci.”
I due tornarono alla panchina e si misero comodi uno di fianco all’altro: “Elacrito, vedo che non sei cambiato molto, eh? Sei sempre stato così scettico verso le cose nuove, cambierai mai? Mi ricordo ancora il tuo vecchio comunicatore portatile che aveva persino lo schermo da pigiare…” Il decano lo interruppe turbato: “Ora non lo voglio neanche più vedere se è per questo, ho solo questo multi – braccialetto che mio figlio mi costringe ad usare in caso di urgenza, ma lo uso solo per sapere l'ora.
E tu invece? Ti sei fatto fare anche un beta – cervello?” Scherzò. 
Eleto rise divertito: “Magari! No, quello non l’hanno ancora inventato, ma ho fatto qualcosa di simile.” Anche il compagno sorrise e lo anticipò: “Hai deciso di vendere il tuo cervello a quelli che dicono di conservarlo in eterno per poi ridarti in futuro una nuova vita?”
Questo fomentò lo risate dell’amico che si asciugò gli occhi prima di continuare: “No. No. Non hai mai sentito parlare dell’aldilà virtuale?”
“No.” Eraclito si mise per scongiuro una mano in mezzo alle gambe mentre l’amico rise della sua ingenuità: “No, non ti devi preoccupare. L’aldilà virtuale è una cosa scaramantica ed è anche una cosa piuttosto divertente.”
L’anziano si rimise composto ed alzò un sopracciglio folto: “Allora di che si tratta? Adesso ti filmano anche dopo che sei morto? Ormai ci possono filmare ovunque.”
“Hai ragione, ma non si tratta di questo. Vedi, l’aldilà virtuale è un nuovo genere d'interazione di massa, ma in verità è qualcosa di completamente diverso.” Sorrise Eleto visto lo strano interesse del suo amico che però lo interruppe di nuovo: “Mi ricordo ancora quando mi feci giocare a quel vecchio videogioco balordo con tutti quei cavalieri, re e maghi di ogni sorta, dove ogni sera ci toccava sconfiggere qualche mostro insieme, come si chiamava?”
Il vecchietto arzillo si grattò la testa: “Parli di World of War? Fu un gran bel gioco quello! Un pezzo storico delle interazioni di massa, ma, aspetta, ti stavo spigando che cos’era l’Aldilà Virtuale, no? Dovresti iscriverti anche te!”
Eraclito scosse vistosamente la testa: “Ma, a dire il vero, io non ci tengo molto ad andare all’aldilà per ora!”
“Ma non ti ho detto che è un gioco?” Eleto allargò le braccia: “Ora ti spiego. Praticamente tu ti colleghi in rete e vai su YourNirvana e ti registri per creare il tuo avatar come una volta, ma inoltre dovrai compilare delle schede sul tuo carattere. Il tuo personaggio virtuale sarà così mandato nel primo livello del gioco ovvero nel Purgatorio da dove inizierà il suo destino nell’aldilà. La cosa divertente è che ogni volta che ti ricollegherai ti verrà chiesta una domanda personale come una preferenza, un’opinione o una scelta specifica che andrà a modificare il carattere del tuo avatar e potrà di conseguenza andare in paradiso o all’inferno, ma lui vivrà per sempre!”
Per l’impeto delle parole dell’amico il decano s’intimorì: “Quindi, se ho ben capito, attraverso dei questionari puoi creare una tua copia virtuale che vivrà in eterno anche se non ci sarai più?”
“Si, esatto! Ma non solo.” Gli occhi di Eleto iniziarono a brillare per l’emozione: “Tu potrai in qualsiasi momento andare a vedere il tuo avatar, dove sarà finito, che cosa possiede e come sarà in relazione agli altri avatar dei tuoi amici e come si comporta. Se si comporterà bene andrà a divertirsi in paradiso mentre se si comporterà male allora soffrirà all’inferno e tutto questo a seconda dei tuoi dati personali. Io adoro Nirvana.”
“Lo avevo capito.” Eracleto si dimostrò piuttosto scettico, come sempre: “A me sembra tutta una scusa per farti dire gli affari tuoi. Ci sono sempre degli interessi dietro a queste cose. Non mi piace.”
“Ma ci siamo già tutti in paradiso, manchi solo più te. Tutti i nostri amici di professione e gli altri.
Ricordati questo nome: YourNirvana e stasera vai a cercartelo in rete.” Eleto fece un occhiolino all’amico che però si mise a borbottare: “Ti ho già detto che non mi interessa, io la rete la uso solo per le cose serie:. La uso per chiamare, per le notizie e per votare ogni giorno.”
“Ti metti a votare ogni giorno?” Lo sguardo di Eleto si fece sempre più sorpreso: “Non dirmi che voti ancora manualmente? Questo significherebbe che tu ti metti a leggere ogni legge o emendamento dal governo centrale?”
Il decano annuì: “Ovvio. Votare è una cosa seria. Tutti dovremmo essere consci di ciò che si decide per il futuro. Io non mi fido degli algoritmi informatici.”
Eleto sorrise: “Ora che ci penso, io li impostai al mio diritto di voto qualche settimana dopo la mia laurea. Io non sono mai stato un appassionato di politica come te. Quasi non ricordavo più di aver fatto questa cosa.”
Lo sguardo di Eraclito si fece sempre più serio: “Ricordati che il voto è un diritto e un dovere civico. È l'unico modo che abbiamo per esprimere concretamente il nostro parere su ciò che ci sembra giusto e ciò che è sbagliato e non possiamo affidare anche questo alle macchine. Non possiamo mettere a rischio il nostro libero arbitrio.”
Eleto scosse la testa: “Ma una volta mi hanno spiegato che compilando le proprie schede caratteriali per il programma di voto del governo, questo può effettuare le elezioni e le votazioni secondo il tuo carattere e la tua opinione, senza dubbi di sorta.”
Il decano batte un colpo al suolo col proprio bastone: “Ma una persona può crescere e diventare migliore di quel che effettivamente è, insomma, le opinioni si possono cambiare e questo sistema automatico non ne tiene conto in questo modo!”
Eleto fece spallucce: “Si, ma potrai sempre ricompilare le tue schede caratteriali in qualsiasi momento.”
“Ma vuoi capire che questo sistema non ti permette di pensare con la propria testa? E inoltre potrebbero rubare la tua identità.” Eraclito prende un attimo di fiato: “Per esempio, magari hai una certa opinione sulle forze armate dello stato, ma puoi avere un’opinione diversa verso le missioni militari a cui sono collegate. Come fa un programma a capire questa tua sottigliezza?”
“Ascolta. Io a queste non ci voglio neanche pensare o doverci penare. Sono cose da cervelloni e subire sfilze di documenti legali e noiosi con tutti quegli articoli e commi non mi piace. Io mi fido degli algoritmi, ormai tutti lo fanno.”
“Non dovresti.” Detto questo Eracleto si alzò dalla panchina: “Posso offrirti qualcosa da bere?”
L’amico sorrise: “Certamente, niente di meglio dopo un lungo viaggio. Dove mi porti? In un drink bar?”
“Macché!” Sbuffò Eraclito: “Ti porto a casa mia! Non mi va di farti bere tutte quelle bibite chimiche del giorno d’oggi!”
Anziani nel 3183 di Mattia Bellunato 28/04/11 (Tutti i Diritti Riservati)

martedì 12 aprile 2011

L’Eremita della Vecchia Ferrovia

Era un inverno mite nella quinta vallata dell’ovest.
Molti dei villaggi di pastorizia si furono svuotati dopo il tragico fallimento della grande conceria.
Nel cielo terso risplendeva con poca forza il sole basso sopra le creste rocciose e le correnti fredde dei monti scorrevano lievi ma taglienti tra le fronde degli alberi. Il loro rumore sordo si accordava con il gorgoglio dei ruscelli e il cinguettio degli uccel di bosco.
In queste terre alte vi era un’unica ferrovia nata per mettere in comunicazione la conceria con la fondo valle. Le rotaie si erano conservate nel tempo, ma l’erba alta tra di esse dimostrava quanto madre natura si fosse rimpossessata di tutto il paesaggio.
Francesco De Sales era finalmente arrivato al paese di Concordanza dopo quasi una mezza giornata di viaggio in corriera. Il ragazzo era un promettente giornalista che adorava definirsi un freelance dei web-log.
Il suo sito internet chiamato Interviste Uniche divenne molto popolare grazie all’Intervista alla Signora dei Fiori di Pesco. In quell’incontro con una paziente dell'ospedale psichiatrico S. Maria della Pietà, De Sales descrisse come la signora scelse consciamente di vivere nel suo mondo immaginario fatto di fiori di pesco rifiutando la realtà materialista e senza Dio dei giorni nostri. La sua scrittura diretta, precisa e coerente abbinata alla sua straordinaria capacità di eviscerare l’animo delle persone gli conferì la prima pagina sui motori di ricerca.
Molti editori e notiziari gli proposero contratti di lavoro o collaborazione molto allettanti, ma il giovane controcorrente li rifiutò e questo a causa della sua forte vena apolitica.
Il sentimento dell’apolitica, tipico del movimento giovanile, gli dava un carattere piuttosto ricercato dai suoi lettori di città e gli conferiva uno stile di vita piuttosto disinteressato alla società a causa
delle molte distrazioni e della poca partecipazione dei movimenti sociali. Tutto questo contrastava con i pareri degli anziani che abbracciavano l’opinione degli studiosi in materia ovvero che l’antipolitica sociale fosse un ossimoro in quanto la politica dovrebbe essere parte integrante della società in quanto responsabile del benessere e della felicità della stessa.
“Nel nostro paese non esiste un notiziario che non abbia un padrone politico.” Scrisse Francesco De Sales nel proprio sito in un articolo introspettivo: “Io non mi sento di rappresentare alcun ideologia politica, alcun movimento o alcun tipo di altra scelta. Io ho deciso di riportare solo la verità dei fatti o meglio delle persone così come mi appaiono, senza denaturarne l’animo o il sentimento. Voglio pormi come un amplificatore per persone che non hanno voce, ma che possano pensare in maniera diversa dalla massa per poter seminare dei dubbi nel nostro complesso sistematico di oggi.”
Francesco venne a sapere di un eremita a Concordanza; un vecchio chiamato il Filosofo della Ferrovia che abitava nell’ultima e desolata cantoniera ferroviaria della vallata. Un uomo di scienza, laureatosi in filosofia presso una prestigiosa Università degli Studi quasi settanta anni fa, ma che scelse di ritornare alle proprie origini.
La ferrovia abbandonata attraversava una strada alberata prima di raggiungere la vecchia conceria oggi demolita e in quel luogo, poco lontano dal paese, c’era una cantoniera con il suo passaggio a livello arrugginito dal tempo.
L’edificio a due piani fuori terra fu costruito lungo la linea ferroviaria e, per la sua decadente struttura e la lieve pendenza verso destra, sembrava inabitabile agli occhi di Francesco.
Prima di attraversare il passaggio a livello a piedi, il giovane esaminò la strana costruzione attentamente per meglio comprendere le abitudini del suo proprietario. La parete lungo la ferrovia era del color crema originale, ma era perlopiù rovinata con l’intonaco distaccatosi dall’erosione del vento e dalle nevicate invernali. Quattro finestre erano sigillate dalle ante mentre, oltre ad uno strano infisso sigillato, vi era anche un caratteristico numero 83 che troneggiava su di esse. Dalla parete inferiore spuntava, come una piccola coda, un caminetto di latta piegato verso l’alto e dalla caratteristica forma a fungo mentre sul muro dell’ingresso, seminascosto da un cancello di cemento ed un magazzino, spiccava una grossa T cancellata dal tempo vicino all’unica finestra aperta sulla strada ghiacciata. Superato il passaggio a livello, Francesco studiava come quella casa potesse
parlare del proprio padrone: disordine, riservatezza e trascuratezza. Vide il cancello chiuso da ben due grossi lucchetti ed un cartello con scritto: “State alla larga”, ma secondo il giornalista era un messaggio piuttosto inutile in un posto desolato come quello. Oltre al cancello vi era un giardino di piante selvatiche poco curate e seduto su di una seggiola a dondolo davanti alla porta d’ingresso vi era l’eremita.
Il giornalista si tolse dalla fredda ombra della lunga via alberata e si avvicinò al cancello: “Buongiorno, sono il freelance Francesco De Sales delle Interviste Uniche.” L’anziano, sotto il poco sole invernale che illuminava l’ingresso, osservò attentamente il giovane ad occhi stretti fumando una pipa churchwarden, ma rimase immobile. Poi il vecchio sbuffò una nuvola di fumo dalla sua lunga pipa riccamente ornata, e chinò in avanti la testa nascondendo gli occhi sotto una cappello di paglia intrecciata.
Francesco pensò che l’anziano soffrisse di disturbi all’udito e si schiarì la voce: “Buongiorno, sono il giornalista Francesco De Sales delle…” “Salve.” Salutò l’anziano con una voce secca e distaccata: “La stavamo aspettando anche se non proprio in questo momento.”
L’anziano mosse la pipa nella propria bocca con un’espressione di forte disgusto. Francesco sapeva
di essere in orario: “Le faccio le mie più sincere scuse per l’orario, signor Ironio. Non ha ricevuto la
mia lettera?” Il giovane si affacciò al cancello che si aprì al minimo sforzo con sorpresa del ragazzo.
La chiusura con i due lucchetti era in realtà un inganno agli occhi del giornalista che decise di rimanere sempre allerta: “Posso entrare? Con permesso.”
Il vecchio rimase immobile, ma la sua voce si fece sempre più lenta: “Cosa vuole esattamente, signor De Sales?”
“Solo farle una piccola intervista, nulla in più di quello che gli scrissi tempo fa nell’ultima lettera.
La ringrazio moltissimo per la sua disponibilità. Non le ruberò molto tempo.” Il ragazzo, mosso dal pensiero che quello fosse un posto privo di occupazioni, si fece sfuggire un piccolo cenno d’ironia nell’ultima frase e questo smosse il vecchio che spense la propria pipa con il pigino e lo scovolino: “Dunque lei vorrebbe entrare in casa nostra?” si alzò dalla seggiola a dondolo.
“La ringrazio.” Il giovane attraversò il giardino dell’ingresso ed estrasse un piccolo fazzoletto dalla tasca dei suoi jeans e si asciugò il sudore della fronte mentre il vecchio gli diede le spalle per aprire la porta di casa: “Non tema giovanotto. Potrà ritemprare le sue meningi in casa nostra.” Scherzò il vecchio entrando in casa e mostrando al giovane dove appendere il proprio cappotto togliendosi il proprio.
Una volta entrato, un fortissimo odore acre assalì il giovane opponendosi al piacere del tepore asalingo. Appese il cappotto in un soggiorno ricolmo di moltissimi oggetti diversi, alcuni di altre epoche. Aldilà della sala, in una stanza connessa vi era un grosso caminetto che scaldava l’intera casa di muri rovinati dall’umidità.
Al centro del salone, arredato con mobili molto vecchi ed un lampadario rotto, c’erano tre poltrone diverse e disposte in cerchio. Non era difficile capire che la stanza col caminetto fosse la cucina dati i numerosi utensili, padelle e pentolini di rame dal manico lungo appese alle pareti. Il forte odore disgustò Francesco che strinse più volte il naso.
“Vedo che non apprezza le bucce d'arancio.” Disse il vecchio puntando il dito verso la stufa vivace e poi fece cenno con la mano aperta di sedersi al giovane: “Scelga la poltrona che preferisca di più.
Non che la scelta importi.”
Francesco vide l’eremita sorridere e questo aumentò il suo senso d’inquietudine. Si sedette sulla prima a disposizione ovvero una poltrona di pelle rossa imbottita e con in punta su di ognuno dei braccioli una testa di leone in ferro.
“Quindi la sua indubbia scelta l’ha portata verso il buon gusto.” Il tono del vecchio si fece sempre più amichevole e si sedette su di una poltrona nera dallo schienale piuttosto alto.
Il ragazzo provò a mettersi a suo agio schiarendosi la voce: “Posso chiedervi di registrare il nostro incontro?”
Il vecchietto rugoso e calvo sorrise e parlò scandendo stranamente le proprie parole: “Questa è una scelta che non mi compete. Si senta libero di fare ciò che pensa possa essere più opportuno.” Il vecchio prese dalla tasca del proprio panciotto il proprio curapipe e sistemò il tabacco per una nuova accensione.
“La ringrazio.” Il giovane sfiorò il proprio registratore high tech e poi estrasse dalla tasca della propria camicia un taccuino con penna: “Bene. Possiamo iniziare. Eccovi la prima domanda: da quanto tempo vive qui signor Massimo Ironio?”
L’eremita si accese la pipa con un fiammifero ed iniziò a parlare lentamente sbuffando qualche nuvola di fumo dolce: “Lei ha difronte l’ultimo vero abitante di Concordanza da quando il prete ha fatto ritorno al suo clero e da quando la Teresina, Antonio, Piero e Beppe non ci sono più. A breve compieremo cento anni in questo posto.” Il vecchio si fermò come per attendere un responso fumando a lungo mentre guardava il giovane giornalista concentrato più dal non dimostrare il disgusto degli odori che dal fare la domanda successiva: “Immagino che queste persone che avete citato fossero gli ultimi vostri conoscenti, vero? Come può sopportare la propria solitudine da quei giorni?”
Il vecchio strinse gli occhi: “La solitudine può essere vista come un allontanamento o l’abbandono della socievolezza, ma per noi non è affatto così. La cosiddetta solitudine può, e deve essere, un viaggio interiore ai confini della propria mente per poter scoprire solo attraverso noi stessi la verità delle nostre scelte. Ci segue?” Il vecchio sbuffò altro fumo mentre il giovane annuì. Continuò: “Viviamo queste fredde giornate invernali tra i nostri oggetti più cari, anche quelli apparentemente insulsi, ma che hanno comunque un significato soggettivo. Abbiamo vissuto qui la maggior parte della nostra vita e nostro padre fu il responsabile del casello ferroviario per molti anni. Sopratutto negli anni in cui la grande conceria fu all’apice della propria produzione. In quei tempi, Concordanza ospitava centinaia di lavoratori con le proprie famiglie. Dopo la sua chiusura della
fabbrica a causa dello smottamento di cinquantanni fa, tutti i paesani compresi i pastori abbandonarono questo posto. Solo pochi nativi vollero restare affinché il paese non diventasse un fantasma, ma ora tutto  sembra essere perduto. Teresina, Antonio, Beppe e Piero sono stati gli ultimi ad andarsene e tutti hanno vissuto una vita piena e senza risentimenti.” L’eremita si fermò per curare la pipa quasi spenta. Il giornalista non perse un appunto: “Quindi tutti questi oggetti in casa sua, strumenti di lavoro, fogli, mappe, orologi e quanto altro, sono ricordi?” “In parte si.” L’eremita sbuffò con soddisfazione una nuova nuvola grigia: “Ognuno di essi custodisce una storia ed ogni storia custodisce dentro una persona.”
Il ragazzo attese il continuo, ma capì che l’eremita sembrò perdersi nei propri pensieri dal suo sguardo fisso verso sinistra e quindi chiese: “Quindi se ho ben capito, voi passate le giornate a studiare i vostri ricordi. Avete potuto dedurre dei risultati dai vostri studi?”
L’anziano lo guardò dritto negli occhi: “Come le abbiamo già detto, ogni ricordo, che sia oggettivo o soggettivo, contiene una storia che potrà essere piccola come un attimo o grande come una vita intera. Ci potrà essere una sequenza di storie strettamente correlate o no da poter disporre su di un ipotetico spazio immaginario della nostra mente. Sta a noi scegliere se disporle in maniera ordinata o disordinata. Ci segue? Il sistema disordinato è il più comune mezzo inconscio per visualizzare le nostre piccole storie o le vicende di un’altra persona e ci si pone di fronte ad esse come fossimo davanti ad un tavolo imbandito di fotografie sparse e di cui ne possiamo analizzare solo una o poche alla volta. Al contrario, il sistema ordinato è invece la classica linea logica temporale in cui i nostri ricordi, o le nostre storie, possono essere concatenate secondo il criterio del tempo, ma io sostengo che tali linee logiche non siano parallele tra di loro.” Il vecchio si fermò come per scegliere attentamente le prossime parole ed iniziò a fumare a lungo.
Il ragazzo smise di scrivere come un forsennato ed alzò il proprio sguardo: “Le chiedo scusa, cosa significa che secondo voi le linee temporali possano non essere parallele tra di loro?” L’eremita socchiude gli occhi mostrando una profonda concentrazione: “Lei ha sempre pensato di vivere la sua vita in un presente contemporaneamente ad altri suoi simili, non è vero? Le persone sono convinte di trascorrere la propria esistenza in un presente che segna in una sola direzione l’andamento del tempo. Questo, per esempio, viene a noi dettato dal giorno e dalla notte, Ci segue?”
Il ragazzo annuì, ma smise di scrivere avendo la certezza della registrazione: “Si.” “Bene. Oltre a questo, abbiamo anche la convinzione che ognuno di noi stia vivendo questo momento simultaneamente con individui in nostra presenza e non, indipendentemente che siano in grado di percepirci oppure no. Io metto in dubbio proprio questo, ovvero che la realtà del nostro tempo possa non essere la realtà sua o di un altro individuo. Non è un’ipotesi molto intuibile senza esempi e quindi, per chiarire, le diremo che magari lei nel suo presente reale è a casa sua che scrive di me di questo momento mentre noi siamo invece presenti all’intervista a parlare con lei. Ognuno di noi possiede una propria vita descrivibile come una lunghissima serie di azioni ed ogni azione comporta ad una scelta.” Il ragazzo appoggiò i gomiti sulle ginocchia: “Ma se queste vite sono non
contemporanee come ha appena detto, come può esistere il libero arbitrio? Lo rinnegate?” Il vecchio sbuffò: “Certo che no. Magari noi abbiamo già scelto di fare questa intervista, ma lei potrà
rinunciarvi proprio in questo momento, tutto è possibile. Ogni deviazione dal percorso è possibile ed alimenta la costruzione di una modello complesso di vite ognuna intrecciata con altre come in una rete i cui nodi non sono altro che le nostre scelte.”
“Ma questo non è possibile. Io non vi capisco. Come potrebbe il mio presente essere diverso dal suo se in passato voi non avreste, che so, scelto di non ritornare in questi posti?”
L’eremita pestò il piede per terra una sola volta: “Quindi lei non ha afferrato il concetto. Non importa quanto possano essere distanti le nostre scelte, tutte quante possono portare ad un nodo, ma l’importante è capire il concetto di verità sulla realtà. Ciò che per tutti noi è odierno in questo attimo potrebbe essere l’insieme di tutti gli intrecci della radice, ma allo stesso modo potrebbe essere vero che nessuno di questi lo sia. Il presente potrebbe anche non esistere. Tutto è racchiuso nelle nostre scelte che io credo possano estinguere il cosiddetto destino. Tutto ciò che noi vogliamo o non vogliamo consciamente o inconsciamente definisce un deviazione della nostra linea temporale ed è in grado di cambiare anche violentemente la nostra vita, ma ciò viene molto spesso influenzato dalle scelte delle altre persone. Quindi tutto può anche essere artefatto o un’illusione, se le scelte degli altri sovrastano le nostre e quindi si tratta di destino. Io ritengo che pure il cosiddetto tempo altronon sia che un artificio umano.”
Durante la pausa di riflessione dell’eremita, Francesco si trovò in difficoltà per formulare una nuova domanda e scelse di farsi ripetere l’ultima frase per far proseguire il discorso: “Quindi voi pensate che il tempo altro non sia che un artificio umano?” Il vecchio spense la pipa e il sole che illuminava la stanza dall’unica finestra lo mise in ombra: “Il tempo è comunemente accettato come una serie di attimi che compongono il nostro passato, presente e futuro, ma a livello ipotetico, e di calcolo, ogni attimo potrebbe essere diviso in metà all’infinito. Il solo tempo definito dal giorno e dalla notte altro non è che un’illusione della rotazione terrestre, ma in verità è solo un metodo di calcolo per la nostra comodità. Nella realtà esiste il solo e semplice movimento di particelle che compongono tutti noi ed ogni cosa intorno a noi. Esiste solo il movimento non il tempo. Collegandoci al discorso della scelta, io ritengo che ogni nostro movimento nel presente non possa comunque ad influenzare l’immensità dello spazio. In questo momento è possibile che tutto ciò che sta al di fuori della nostra realtà possa in verità essere già stato deciso e dunque la nostra presenza non possa essere in grado di cambiare mai la natura degli eventi. Vogliamo concludere lasciandole un messaggio di speranza,
senza la quale ogni vita sarebbe vuota: ricordatevi di essere sempre accorti con le vostre scelte di vita quotidiana e fate in modo che possano essere sempre le migliori per voi e per ciò che vi circonda, in qualunque tempo viviate perché ogni vostra scelta è parte integrante della nostra esistenza.”


L’Eremita della Vecchia Ferrovia di Mattia Bellunato 11/04/11 (Tutti i Diritti Riservati)


martedì 15 marzo 2011

Il Motociclista della Linea Bianca

All’alba la città stava ancora dormendo.
Quello era un giorno di lavoro per Edo dopo una lunga settimana di ferie.
Dopo le giornate divertenti godute tra parenti, amici e la fidanzata Chiara, oggi si doveva svegliare molto presto.
La sveglia squillò con quel suono tedioso e molesto che hanno solo le sveglie.
Edo si rigirò di lato tra le lenzuola manifestando la sua incapacità di volersi alzare: “Uhm. Di già?”
Aprì a fatica gli occhi avvolto dal calore del letto.
Chiara era al suo fianco e di tutta risposta si tirò a sé tutto il lenzuolo lasciandolo completamente scoperto. Il freddo improvviso lo svegliò. La guardò ad occhi stretti con invidia e pensò: “Non ti devi mai svegliare presto per l’università vero?”
Poi si alzò barcollando nel buio e uscì a tentoni dalla camera da letto.
Chiuse la porta con noncuranza ed accese la luce del bagno.
 
Dopo essersi lavato e vestito, fece colazione ed infine si mise le scarpe.
“Avrò preso tutto?” il ragazzo si toccò le tasche per controllare e si ricordò di prendere le chiavi di casa ed il portafoglio.
Sopra al suo comodino trovò anche un biglietto con una scritta tipica femminile e lesse: “Ha chiamato tua madre." Sbuffò e si disse: "Cosa vorrà questa volta? La chiamerò quando tornerò dal lavoro.”
Scese le scale ed entrò nel garage.
Aprì il cancello e poi montò sulla sua adorata moto sportiva.
Uscì di casa lasciandosi dietro ogni suo pensiero e si lasciò andare a quel senso di libertà illusorio che solo la moto può farti sentire. Quello era il suo piccolo momento di libertà in cui solo i pensieri felici attorniavano la propria testa.
La moto può svincolare facilmente dalla prigione urbana fatta di traffico e di file interminabili di mezzi.
Nella sua quattro tempi erano racchiusi tutti i suoi risparmi e la sua cura nei suo confronti era a dir poco maniacale.
Il lavoro di Edo invece era uno schifo.
Alzarsi tutte le mattine prima del sole per fare il netturbino non era il massimo della vita.
L’orario era a dir poco frustrante, la paga era il minimo sindacale e, alla fine della giornata, la doccia era obbligatoria.
 
“Chissà come starà il vecchio Bob…” la testa di Edo divagava mentre la strada scorreva senza dubbi o incertezze dato che la conosceva a memoria.
Bob era il diminutivo di un suo vecchio collega di lavoro ed era l’amico più divertente che Edo conoscesse data la sua incredibile capacità nel raccontare le barzellette. Purtroppo Edo le barzellette non le sapeva proprio raccontare e tutte le volte o se ne dimenticava una parte o la sbagliava raccontare. 
“Diamine. L’aria è proprio fredda stamattina!” il sole era ancora addormentato dietro l’orizzonte e solo le luci ritmiche della tangenziale gli illuminavano la visuale. Uscì dalla sua città e vide che la foschia del mattino avvolgeva tutti campi e la strada.
“Per fortuna oggi non c’è un camion!” pensò Edo divertendosi ad accelerare sempre di più dopo aver affrontato una lunga curva dopo la quale si spalancava un lunghissimo rettilineo.
“Uao! Mi sembra di volare!” sorrise mentre l’aria fredda gli sembrò tagliare il giubbotto e il freddo gli penetrò dagli spifferi.
Edo ne volle ancora, abbassò la testa e vide la sottile linea bianca dell'asfalto scivolare via ed accelerò: “Ancora, vai! Ancora!” ingranò l’ultima marcia e fece urlare la moto.
 
La strada si liberò da qualsiasi ostacolo e al passaggio di Edo anche la foschia si dissolse: “Ma che diavolo!” pensò Edo rallentando quando vide una nuvola di nebbia poco più avanti e qualcosa comparirgli sul fianco destro in basso.
All’improvviso lo affiancò un grosso cane bianco che correva accanto a lui.
“Un cane? Qui?” si disse e accelerò. Poi quando vide la velocità sul quadro degli strumenti aumentare tornò con lo sguardo sull'animale.
La bestia correva ancora al suo fianco, girò il proprio muso, lo guardò negli occhi e spalancò di scatto la bocca al massimo.
Edo rallentò mentre i suoi occhi scattavano ritmicamente dalla strada al cane ed ogni volta l'animale si faceva più piccolo: ”Non ci posso credere, ma che diavolo è? Adesso mi fermo…”
Il cane scomparse nella nebbia ed Edo si fermò sulla corsia di emergenza e mise il piede destro per terra ma non toccò il suolo: “Ma che diavolo! Oh no, Cado!” in una frazione di secondo sentì il proprio corpo sbilanciarsi verso destra, ma mantenne le mani sul manubrio perché la moto non doveva assolutamente cadere ma questa lo seguì: “La moto! No!"
Sentì la moto cadergli addosso nel vuoto di un pozzo nero mentre le luci della tangenziale svanirono: “No! No. No!" Edo sentì la propria moto sbriciolarsi e tutto svanì mentre continuava cadere. Si sentì soffocare e ruzzolò nel buio tentando di togliersi il casco, ma non ci riuscì a causa dei continui urti: “Ahi! Che male!” Edo sentì un suolo morbido quando finì la sua caduta.
 
Dal casco non vide nulla e il suo cuore iniziò a batte all’impazzata.
Percepì dei rumori sordi dall’intensità sempre maggiore e quindi tentò di alzarsi in piedi percependo che il suolo era morbido come se fosse terra.
Si alzò in piedi e si tolse finalmente il casco.
I primi raggi del sole lo illuminarono e vide di essere nel centro di un enorme campo agricolo.
“Oddio…” Edo non vide più la moto e tanto meno la strada: “Ma dove sono caduto?” s'incamminò dolorante alla ricerca di indizi ma in mezzo alle zolle di terra non vi era alcuna impronta sua o dei segni di caduta.
Lontano da sé vi erano solo boschi.
“Ma dov’è finita la strada?”
Edo camminò a fatica su quella terra nuda finché non vide un canale d’irrigazione.
Percepì una strana voce gracchiante provenire dall'acqua e si avvicinò.
Dall’altro lato della riva vide una rana con la zampa sul petto che stava cantando: “Voglio vivere così, col sole in fronte, e felice canto, beatamente. Voglio vivere e goder, l'aria del monte, perché questo incanto, non costa niente. Ah, ah!! Oggi amo ardentemente quel ruscello impertinente menestrello dell'amor. Ah, ah! La fiorita delle piante tiene allegro sempre il cuor sai perché?”
“Cosa?” Edo era scioccato ma la rana continuò con la sua voce da tenore: “Voglio vivere così, col sole in fronte, e felice canto. Canto per me!!!” e si tuffò dell’acqua torbida scomparendo.
“Ma che diavolo?” Edo si tolse i guanti, li mise nel casco e si strofinò gli occhi.
 
Si avvicinò al ruscello per capire meglio e sentì il rumore veloce dell’acqua che scorreva. Ne percorse un tratto e, all’improvviso, nel bel mezzo dell’acqua comparvero due piccoli pesci che tenevano la bocca aperta verso il cielo come se dovessero prendere fiato.
“Non importa quanto tu sia veloce, l’importante è fare presto!” disse il primo.
Edo fece cadere al suolo il proprio casco per l’incredulità.
Il secondo pesce si voltò e con gli occhi a pelo d’acqua vide il ragazzo avvicinarsi al bordo del grosso rivo: “E tu? Chi sei?”
Edo cercò di riprendere lucidità ed indicò sé stesso: “Io?”
“Tu come ti chiami?” fu il primo pesce a parlare.
“Io mi chiamo Edoardo, voi come vi chiamate?” ad Edo parve tutto assurdo.
“Ti pare che a noi servano dei nomi per chiamarci?” disse con arroganza il secondo.
Il primo inarcandosi leggermente verso il ragazzo disse: “Se mi vuoi chiamare basta che mi guardi no?”
“E se vuoi parlare con tutti e due, ti basterà guardarci entrambi no?” ribatté il secondo che, grazie ai suoi occhi laterali, poteva vedere sia il suo compagno che Edo senza difficoltà.
Edo non trovò risposta e all’improvviso si sentì mancare la forza nelle gambe.
Prima s’inginocchiò e poi cadde rovinosamente nel canale facendo scappare i due pesci..
Scivolò su di un fianco dentro l’acqua stranamente tiepida e poi galleggiò supino facendosi trascinare dalla leggera corrente.
Il suo respiro affannoso si rilassò in uno stato di semicoscienza.
Si sentì come se fosse stato paralizzato e chiuse gli occhi.
Percepì tutti i rumori dell’acqua e si concentrò su di essi.
Il rumore fu sempre più forte e gli mancò il respirò quando senti di nuovo quella sensazione angosciante di vuoto.
 
Cadde da una piccola cascata e trattenne il respiro finché non percepì di nuovo l’aria sul suo volto e riprese quindi a respirare. Quando riaprì gli occhi vide davanti a sé una terra dorata.
 
Poi quella luce violenta color oro svanì e riprese conoscenza di sé.
Gli tornarono lentamente le forze e riuscì ad alzarsi in piedi.
Edo era davanti ad uno spiazzo completamente bianco.
All'improvviso, tutto intorno a sé, udì del chiasso e delle urla da una moltitudine di bambini che, poco lontani da lui, giocavano a toccarsi uno alla volta come se volessero passarsi una maledizione.
Edo barcollò per arrivar fin da loro ed uno di essi, vestito di bianco e dai capelli neri, gli prese il braccio destro con forza. Edo l’osservò ma non riuscì a parlare.
Gli occhi azzurri del bambino sorrisero e questi lasciò la presa mentre Edo percepì un forte dolore al braccio. Ancora sotto shock, Edo vide il suo braccio deformato dal contatto come se fosse stato modellato come argilla fresca.
Il dolore della deformazione si tramutò in uno strano calore nelle vene come se il suo sangue incominciasse a ribollire per poi risalire dal braccio in tutto il corpo.
Edo si tenne il braccio destro e si piegò in avanti per le fitte viscerali, ma non riuscì ancora a gridare il suo dolore.
Allora tutti i bambini vestiti di bianco lo accerchiarono e il più grande di questi si fece avanti e lo colpì a mano aperto in pieno petto.
Edo cadde all’indietro cadendo sul terreno polveroso ed alzando una nuvola di cenere.
 
Il suo sguardo si riaprì illuminato dalla luce solare del cielo e il dolore era svanito.
Sopra di lui si estendeva un cielo giallo arancio e lui percepì col tatto un suolo polveroso.
Con la mano afferrò una manciata di polvere nera che fece ricadere al suolo come pioggia.
Attorno a lui la polvere si mosse.
Da seduto, si alzò subito in piedi e vide spuntare dal suolo delle teste umane di cenere nera senza alcun volto.
Edo era circondato e le teste si sollevarono prendendo forma in un corpo.
Dal loro corpo si allungarono degli arti deformi che si sollevarono e all'improvviso lo afferrarono per la vita.
Edo gridò dal dolore.
Quindi le figure lo assalirono facendolo sparire nelle tenebre del coma.  
La Sottile Linea Bianca di Mattia Bellunato 20/02/11 (tutti i diritti riservati)

Opera di Mario Guido Dal Monte "Il motociclista"  del 1927

mercoledì 9 marzo 2011

L'Onironauta

Stephanie aveva realizzato un suo sogno: era finalmente a Londra.
Il viaggio fu lungo e faticoso ma ora, una volta sistemate tutte le sue cose nella camera dell’ostello, poteva finalmente uscire all’avventura.
Adorava quella metropoli anche se non la conosceva bene e non aveva ancora percorso alcuna via a piedi.
Scese in strada ma purtroppo, come spesso accade a Londra, la giornata non era bella. Il cielo era grigio come i palazzi intorno a lei e questo colore conferiva al paesaggio urbano dei tratti indiscernibili come se ci fosse una leggera nebbia mattutina.
Uscita dall’ostello, la gioia di Stephanie si spense presto e venne sostituita dal disagio. Oltre al paesaggio grigio, davanti a lei si muoveva costantemente un groviglio caotico di mezzi e di persone.
Rimase ferma sul selciato dell’uscita secondaria dell’ostello che dava sul passaggio tra l’ingresso della metropolitana e le strade trafficate.
Osservò prima il paesaggio grigio alla sua destra e poi si voltò a sinistra verso l’ingresso della metropolitana ma il suo cuore sobbalzò. Un tizio vestito con un lungo impermeabile e con il cappello spuntò all’improvviso da un angolo dell’ingresso della metropolitana e si fermò.
Stephanie percepì di essere osservata e rimase immobile per poterlo esaminare meglio e capire, ma non vide alcun viso sotto quel cappello borsalino.
All’improvviso sul volto nero s’illuminò un sorriso enorme e deforme a mezzaluna pieno di denti aguzzi.
Stephanie si spaventò e se ne andò via a passi veloci nella direzione opposta.
 
Seguì a fatica le moltissime e contraddittorie indicazioni cittadine e ci mise quasi novanta minuti per arrivare al parco centrale.
Il parco era semideserto e preservava un po’ dell’autentica natura in mezzo a quella foresta di enormi palazzi.
Un gatto nero le si avvicinò alle proprie gambe per strusciarsi con passo felpato.
“Ciao micio!” Stephanie sorrise.
L’animale era piccolo, dolce e mite e questo tranquillizzò la ragazza che lo accarezzò: “Hai fame?”                 Il tenero muso del gattino si sfregò sulla sua mano con delicatezza, ma poi il suo sguardo si volse oltre la ragazza: un uomo le si era avvicinato.
Il gatto soffiò inferocito e il pelo si raddrizzò per la furia mentre Stephanie si volse, alzò lo sguardo e si pietrificò: <<Cosa… cosa vuoi?>> pensò ma non riuscì a parlare come se fosse stata soffocata.
L’uomo con l’impermeabile le era davanti ed alzò subito una mano dal guanto bianco per indicare qualcosa oltre di lei. Il gatto fuggì via come se fosse impazzito.
Stephanie non poté non voltarsi e quindi si alzò in piedi: in quella direzione vi era una costruzione strana.
Un piccolo palazzo circolare di pietra con attorno delle grosse piglie di argilla.
“Cosa…” Stephanie si rivolse verso lo sconosciuto ma era scomparso.
 
La struttura del monumento era circolare e le piglie erano tutte diverse per altezza ed inclinazione.
La ragazza ne contò otto prima di entrare nel palazzo centrale.
Oltre all’ingresso di pietra si poteva intravedere poco, ma Stephanie trattenne il respiro ed entrò.
All’interno, la sala circolare era spoglia e la poca luce naturale poteva penetrare nella stanza grazie a delle fessure. Stephanie vide che tutte e tre le finestre erano identiche e poi notò che la sala non era completamente spoglia: il pavimento era tagliato perfettamente a metà da una lastra dorata con vicino delle scritte piccole ed indistinguibili. I contorni delle finestre illuminate sembravano indicare qualche scritta ma una nuova luce, proveniente da fuori, attirò l’attenzione di Stephanie.
La ragazza uscì dalla struttura e sorrise quando il sole le illuminò il viso e poi aprì la bocca dallo stupore: “Che meraviglia!” pensò.
Di fronte a lei si ergeva un’immensa vallata di alte montagne verdi e dolci oltre ad un rigoglioso prato infinito. Stephanie si mise una mano sulla fronte per poter scrutare meglio.
Oltre al verde indistinto, intravide una grossa pozza d’acqua e, ancora più lontano, vide una pastorella con un animale simile ad una pecora al proprio fianco.
“Ma come è possibile?” Stephanie cercò una risposta mentre si avvicinava alla pozza per poter poi raggiungere quella ragazza: <<Ma dove sta andando?>> si disse quando vide la pastorella allontanarsi sempre più: “Aspetta!!” e, dallo sconforto, s’inginocchiò ai bordi del laghetto: “Che posto è questo?”
La ragazza volle rinfrescarsi per poter ritrovare un po’ di lucidità, ma prima di toccare l’acqua si fermò.
La sua immagine riflessa era deformata a causa del leggero e continuo movimento ondoso nell’acqua torbida. Poi la sua sagoma lentamente prese forma.
All’improvviso il suo volto riflesso divenne nero ed un enorme sorriso deforme a mezzaluna pieno di denti aguzzi la sfigurò. La ragazza spalancò gli occhi dall'orrore.
“Stephanie! Stephanie. Stephanie!” percepì dall’acqua.
Tutti i suoi muscoli s’irrigidirono dal terrore e l’angoscia prevalse su tutte l'emozioni.
“Stephanie! Stephanie. Stephanie!” fomentò la propria ansia, ma la sua coscienza non le diede la forza di volontà per controbattere.
“Non è reale! Non è reale. Non è reale!” pensò a ripetizione come un mantra.
Poi vide con orrore un braccio della sua deforme immagine riflessa che l’afferrò con forza e la trascinò sott’acqua.

L’angoscia e l’affanno s’impossessarono di lei.
Riaprì gli occhi e vide una maglia metallica di un letto dell’ostello sopra di sé illuminata dalla poca luce artificiale proveniente da un lampione oltre la finestra. Era supina ma completamente paralizzata. Tutti i muscoli del suo corpo erano come bloccati.
Stephanie però era lucida e cosciente, ma la sua angoscia aumentò a dismisura quando si accorse che solo gli occhi rispondevano ai suoi comandi. Gli arti non rispondevano se non con dei lievissimi movimenti.
<<Aiuto! Aiuto!! Aiuto!!!>> pensò di gridare ma riuscì solo a sussurrare qualcosa d’impercettibile.
Sentì come se la propria voce fosse soffocata da qualcosa di anomalo e il panico la prese in sopravvento.
Voleva alzarsi dal letto, pensò di essere stata imprigionata o catturata da qualcuno quand’ecco che la luce della camera si accese.
Henrik, il suo ragazzo, era rientrato in camera ma lei non riuscì a chiamarlo e si mise a piangere.
“Cosa succede?” si allarmò lui quando la vide: “Hai fatto un brutto sogno?” la ragazza riuscì finalmente a muoversi ed allargò le braccia per poter stringere il ragazzo a sé. “Si!” singhiozzò lei mentre lui l’aiuto ad alzarsi.
“Su. Non è niente. Adesso è tutto finito. Ti accompagno in bagno per rinfrescarti. Ok?” le diede conforto facendole scendere le gambe dal letto. Ancora singhiozzante, Stephanie si mise le pantofole e restò  abbracciata ad Henrick.
Dalla porta dell’atrio Stephanie lo fermò un secondo per poter spegnere la luce della camera, ma l’interruttore scattò a vuoto: era impossibile spegnere la luce: <<Ma cosa?>>
“Ma com’è possibile? Si è rotto?” la ragazza riprese coscienza e si voltò verso Henrik di fianco a sé che la guardava intensamente e sorrise con un enorme ghigno deforme a mezzaluna pieno di denti aguzzi.
 
Quindi si svegliò.

L’Onironauta di Mattia Bellunato 11/02/11 (Tutti i Diritti Riservati)
 

giovedì 3 marzo 2011

L'Orologiaio Matto & il Calzolaio Pazzo

In un giorno di nebbia, tipico dei primi dell’anno, Timothy era appena uscito di casa e, mentre camminava, si mise a spiegazzare un foglietto di carta su cui sua madre aveva appuntato: “Ricordati di passare dall’orologiaio prima di pranzo.”
Timothy ben si ricordava che doveva recuperare la pendola del nonno da quel vecchio e tedioso orologiaio nel bel centro del paese.
A Timothy quel vecchiaccio non gli era mai piaciuto.
Adesso era un po’ più grande per poterci andare da solo, ma era comunque infastidito dall’idea di risentire l’orologiaio con quella sua graffiante e gracchiante voce e dal carattere così invadente da sembrare molesto.
Tutti sapevano che l’artigiano aveva qualche rotella fuori posto, ma veniva comunque considerato come il miglior riparatore di orologi antichi di tutta la città.
Timothy si fece coraggio, ora aveva quindici anni. Attraversò tutta la grande piazza e raggiunse l’ingresso seminascosto della bottega.
L’ingresso era tra un negozio d’abbigliamento ultramoderno e un bar molto frequentato e, per questo motivo, non dava nell’occhio con la sua vetrinetta spoglia e poco curata oltre ad un’insegna di legno risalente allo scorso millennio.
Timothy entrò nel piccolo atrio della vetrinetta e vide alla sua sinistra l’inquietante porta buia di vetro con a fianco un piccolo campanello con una scritta: “Suonare.” L’ingresso era chiuso.
“Che sia chiuso?” Timothy non vide alcuna luce aldilà del vetro ma vide che era in tempo secondo l’orario d’apertura esposto. Allora suonò ed attese.
Poco dopo la porta elettrica scattò.
“Sono ancora in tempo.” Pensò Timothy sorridendo finché non percepì quel vecchio tanfo di chiuso tipico dello sgradevole negozio.
Attraversò la porta e quindi svoltò verso destra per poter prima attraversare la penombra e poi raggiungere la luce sgargiante del grosso bancone.
L’aria viziata, accompagnata da un continuo ticchettio di cento orologi tutti diversi appesi ai muri, soffocò i pensieri del ragazzo che attraversò velocemente la semioscurità.
Il vecchio matto era ora dietro al bancone, ma si intravedeva appena dato che qualcuno gli era di fronte al lato opposto del tavolo. Forse un altro cliente.
Questi indossava un lungo cappotto marrone ed era un anziano che dava le spalle a Timothy. Era un vecchio signore completamente glabro ma grinzoso che batteva il proprio piede sinistro con nervosismo: “Anche questa volta non la spunterai!” la sua voce era secca e tagliente, persino più fastidiosa di quella dell’orologiaio che rispose: “Tu pensa a fare il calzolaio. Non vedi che sono a cavallo?” il vecchio bacucco dai pochi capelli grigi incolti indossava, come sempre, dei grossi occhiali da vista molto strani: “Vedrai che stavolta vincerò e tu mi dovrai restituire i miei due anni!”
Il ragazzo notò che l’orologiaio aveva sistemato sugli occhiali una grossa lente monocolare e vide che il vecchio trafficava sopra al bancone dove c’era qualcosa di nascosto alla sua vista.
Il calzolaio scoppiò a ridere e poi sbottò: “Hai sbagliato!” ma subito si fermò quando udì i passi del ragazzo dietro di sé. Si voltò lentamente ma, appena lo vide, lo ignorò e si rivolse verso il suo compare: “Tu non saresti neanche in grado di salirci sopra ad un cavallo. Figuriamoci vincere questa giostra!”
Timothy si avvicinò mettendosi in luce per capire meglio e vide che il duo stava osservando con concentrazione una vecchia scacchiera con sopra una sola pedina: un cavallo bianco.
Le altre pedine del gioco erano ammucchiate a fianco della scacchiera mentre l’orologiaio teneva in mano un sottile cacciaspine con il quale aveva appena fatto una piccolissima incisione su di un piccolo quadrato chiaro della scacchiera.
Il giovane conosceva le regole del gioco, ma non capiva perché mai l’orologiaio cercasse di spostare la propria pedina secondo le regole dato che la partita era già finita in qualche modo.
“A ha! Ti ho già detto che hai sbagliato! Quella mossa l'avevi già segnata!” sorrise il calzolaio
mentre l’orologiaio sbuffò: “Maledizione. Stavolta me ne mancavano solo tre!” poi si voltò: “Oh, salve ragazzo…”
Il calzolaio rise: “Adesso tocca a me. Allacciati la cintura vecchio sbragalone! Sarò io a vincere la giostra!”
“No, ora tocca al ragazzo…” l’orologiaio sospese la diatriba spostandosi di lato verso Timothy che balbettò: “Buon… buongiorno.”
Il calzolaio di risposta borbottò: “Dannazione! C’era una probabilità su trentamila, che fastidio.”
L’orologiaio non distolse il suo sguardo e sorrise mostrando i suoi pochi denti veri e con voce sempre più forte disse: “Dammi solo il tempo per cacciare via questa vecchia ciabatta saltafossi!”
“Cosa? Come osi?” sbraitò il calzolaio: “Oggi pomeriggio io tornerò qui e vedrai come ti faccio le scarpe!” il vecchio si mosse con una camminata sbilenca ed andò verso l’uscita ed afferrò il suo vecchio cappello con una toppa vistosa. Poi guardò male l’orologiaio: “Non avrai mai indietro i tuoi due anni!” e poi fece  l’occhiolino al ragazzo: “Stammi bene figliolo.” E sbatté la porta con violenza.
“Quel vecchio pelato si crede capace di vincere la giostra mentre non sa neanche di che colore sia il cavallo bianco di Napoleone. E tu, invece?” l’orologiaio si avvicinò a Timothy affacciandosi sempre più dal bancone e fissò il giovane paralizzandolo con i suoi stanchi occhi grigi: “Sai dirmi perché le lancette dei minuti sono sempre più lunghe di quelle delle ore?”
Timothy cercò di riflette, ma non seppe dare altra risposta e balbettò: “Per… per distinguerle?”
“No! No. No!” Scosse la testa l’orologiaio mentre strinse con forza i bordi del bancone: “Almeno saprai dirmi com’è il tempo oggi, vero?”
Timothy era in forte imbarazzo e avrebbe voluto poter prendere quello stramaledetto orologio a cucù per poi fuggire via invece che prestare ascolto alle domande di quel vecchio pazzo.
“Oggi…ehm…” Timothy pensò che il vecchio fosse rinchiuso nella sua bottega da giorni e che non potesse avere idea del tempo là fuori e disse con certezza: “È una bella giornata.” mentì ma subito corresse il tiro: “Almeno non piove…”
“No! No. No! Non vedi l’ora? È uguale a ieri? Non capisci che è l’ora di ieri a quest’ora!” il vecchio puntò lo sguardo verso i suoi innumerevoli orologi.
Timothy vide quasi tutti i cento orologi e si rese conto solo in quel momento che ognuno di essi misurava un tempo diverso e riuscì a dire con voce flebile: “Adesso sarà quasi mezzogiorno…"
“Oh santi numi! È già ora quindi!” l’orologiaio osservò il proprio calendario appeso al muro vicino
all’ingresso del proprio laboratorio e lo afferrò: “Torno subito!”
Timothy ebbe il tempo di vedere il calendario e si rese conto che il mese di gennaio era corretto, ma le date erano tutte sbagliate. Forse era quello dell’anno appena trascorso o forse no.
Sentì in lontananza i borbottii del vecchio: “Non c’è tempo! Non c’è tempo da perdere…” mentre trafficava nel laboratorio.
Alla fine tornò dietro al bancone con un nuovo calendario che fissò al muro con aria soddisfatta.
“Mi scusi.” tossì apposta Timothy: “Io sono qui solo per ritirare l’orologio di mio nonno…”
A quelle parole, l’orologiaio si voltò ed afferrò da sotto il bancone un libro molto grosso. La sua copertina di cuoio era finemente ornata con fili d’argento e l’anziano lo aprì a metà e poi fece scorrere le pagine: “Che nome?”
Timothy pensò che il proprio cognome fosse la risposta esatta dato che era lo stesso di suo nonno: “Leary!”
“Veramente?” il vecchio alzò lo sguardo per un momento: “Sei il nipotino di Francis?” e Timothy annuì e sorrise per il fatto che quello fosse anche il suo secondo nome.
“Solo un momento.” l’orologiaio incominciò a sfogliare il libro all’impazzata e il ragazzo vide che era tutto scritto a mano e le informazioni erano disposte in ordine su tre colonne: sulla prima vi erano segnati degli orari, sulla seconda dei piccoli disegni stilizzati e sulla terza dei codici numerici da tre cifre.
Il vegliardo si fermò sulle ultime pagine e col suo vecchio dito storto scorse la colonna dei disegnini e si fermò quando vide una corona stilizzata: “Ah! Eccolo qui.” e spostò lo sguardo sulla colonna successiva: “Codice 657. Vado subito a prenderlo.”
Timothy attese qualche minuto con nervosismo a causa di quel fastidioso ticchettio della bottega e di un inquietante orologio a pendolo raffigurante un volto umano che muoveva gli occhi a tempo.
“Eccolo qui! Ora il cuculo funziona alla perfezione.” disse il riparatore gonfiando il petto: “C’era qualche rotella fuori posto ma ora è come nuovo.” E porse una vecchia scatola di legno al ragazzo e sorrise: “Siamo a posto così.”
“Se lo dice lei…” scappò un sorriso a Timothy divertito dal sottile gioco di parole.
“Salutami il nonno mi raccomando!” salutò l’anziano.
“Lo farò!” Timothy uscì finalmente dalla vecchia bottega afferrando saldamente la scatola e chiuse la porta.
Poi si fermò e, per curiosità, aprì la scatola.
“Quel vecchio o è un matto o è un genio.” E vide un affascinante orologio composto da mille
ingranaggi diversi, sia per misurare il trascorrere del tempo e sia per poter muovere una decina di piccole statuette di legno: “Stupendo.”
L’Orologiaio Matto & il Calzolaio Pazzo di Sirio MB 02/02/11 (Tutti i Diritti Riservati)

sabato 26 febbraio 2011

L'ultimo Peccato Veniale

Un peccato è una parola, un atto o un desiderio contrari alla Legge Eterna [dal Sermo di Sant’Agostino pagina 169].

Un peccato si commette quando si ha materia leggera, oppure anche grave, ma senza piena consapevolezza o totale consenso. Esso non rompe l’alleanza con Dio ma indebolisce la carità, manifesta un affetto disordinato per i beni creati; ostacola i progressi dell’anima nell’esercizio delle virtù e nella pratica del bene morale; merita pene purificanti temporali [dal Compendio del Catechismo, Città del Vaticano 2005, pagina 109].

Nell’infinito multiverso eterno, quando due buchi neri intergalattici collidono si può aprire un varco spazio - temporale che può collegare diverse realtà.
L’armata di Agaliarept copriva ettari ed ettari di distese infernali ed era pronta alla nuova cronozona.
Tutte le unità era infiammate dall’eccitazione quando videro nel cielo nero aprirsi un cerchio di luce prismatica di dimensioni sempre maggiori.
Le divisioni aeree entrarono nel varco per prime e sparirono nella luce.
A terra, i reggimenti dovettero attendere che il varco di luce toccasse il suolo per agire.
Abraxas era tra le fila della propria armata di fanteria.
Il suo corpo rosso e muscoloso era teso come non mai. Odiava i suoi fratelli che aveva accanto.
Odiava i loro scherni ed odiava questo lunghissimo tempo d’attesa in cui tutto era uguale, noioso e pericoloso.
Abraxas non amava la sopraffazione e la depravazione come i suoi fratelli; non vedeva nell’ingordigia o nella depravazione una forma di libertà ma intuiva che, in tutto questo, ci fosse uno schema più grande, una forma di controllo dall’alto di cui sentiva di non farne parte. Nel suo profondo, desiderava poter vivere qualcosa di diverso.
All’improvviso percepì il frastuono ritmico dei tamburi e tutti i suoi fratelli incominciarono a cozzare le proprie armi contro le proprie armature.
Lui fece lo stesso.
Il varco si stava aprendo ad una velocità spaventosa.
All’improvviso scoppiarono delle urla dalle prime fila di soldati. La frustrazione dell’attesa si trasformò in furore ed onde di carne da macello entrarono nel varco.
Abraxas si concentrò preparandosi per la marcia.
Dopo le armate della carne da macello toccò alla prima fanteria oltrepassare il varco.
Oltre la luce del cancello spazio - temporale vi era un caos di anime guerriere.
Ai suoi occhi parve una distesa ricolma di cadaveri mentre, nel cielo, centinaia di creature immonde e celestiali si scontravano senza fine.
 
Aniel era terrorizzata dagli eventi: tutti i suoi fratelli e sorelle erano in guerra con una furia mai vista prima.
“Aniel! Non è il momento d’indugiare! Dobbiamo combattere!” suo fratello e maestro Yecabel andò a scontrarsi con un gruppo di mostri rossi poco lontani da lei.
Uno di essi vide Aniel impaurita ed abbandonò lo scontro lanciandosi in un assalto a grandi passi.
L’enorme diavolo calpestò i cadaveri e ruggì perdendo bava dalla bocca ricolma di denti aguzzi e si avvicinò con ferocia verso la femmina, ma di colpo cadde un guerriero dal cielo che lo colpì con violenza.
La spada di Yerathel trafisse la gola del mostro mentre Aniel scappò via.
Ovunque c’era distruzione e l’angelo impaurito si guardò continuamente intorno con frenesia
facendo sopratutto attenzione che nessuno la potesse assalire dal cielo.
All’improvviso il suolo le mancò sotto i piedi e cadde in un precipizio.
Vide la luce del cielo allontanarsi e cadde con violenza su di un corpo che ruggì dal dolore sul fondo dell’abisso.
Il cuore di Aniel quasi scoppiò dalla paura e si allontanò subito da quell’essere così diverso da lei: “Stammi lontano!”
“Argh! Che male!” lui si poggiò una mano sulla propria ala sinistra in una smorfia di dolore.
Aniel l’osservò attentamente: il suo corpo alato e glabro era simile al suo ma era comunque molto diverso per il colore rosso della pelle e per le sue fattezze somatiche molto più spigolose delle sue.
Dalla sua ala membranosa perdeva copiosamente del liquido scuro che con la propria mano cercava di frenare. Poi si alzò in piedi barcollando e tentò d’arrampicarsi alla nuda roccia della voragine ma il dolore glielo impedì e con un grido cadde nuovamente a terra.
Aniel era consapevole da dove potesse provenire quell’essere dalla fede puramente malvagia ed inoltre sapeva che, per questo motivo, doveva essere eliminato secondo la Legge Eterna, ma il suo credo ebbe il sopravvento.
La sua volontà di penetrare nei più oscuri segreti dell’universo grazie ai suoi studi al fine di superare tutte le avversità del creato tramite la ricerca, le suggerì di aiutarlo per poter meglio comprendere chi avesse veramente di fronte.
Quindi gli si avvicinò lentamente in segno di pace disse dolcemente: “Posso aiutarti?”
Lo sguardo bieco di lui la impietrì e lui si rannicchiò su se stesso come se volesse proteggersi: “Vattene!” fu la sua risposta, ma lei non comprese e continuò ad avvicinarsi lentamente.
“Permettimi di risanare le tue ferite. Ti prego.” Aniel intuì che quella bisognosa creatura non comprendesse la propria lingua e non nascose a se stessa la paura di una reazione violenta nei suoi confronti, ma percepì in lui, nei suoi occhi, qualcosa di nascosto e misterioso che le diede fiducia.
Gli si avvicinò ancora.
Intanto, al di sopra dell’abisso, la guerra era all’apice degli scontri. Le diverse creature volanti e non continuavano a distruggersi a vicenda.
Sotto gli urti della grande guerra, parte della riva del fosso si staccò.
Con un sol ruggito lui le balzò addosso e il grosso masso staccatosi gli si spezzò sulla schiena. Lui le cadde sopra trattenendo quell'enorme peso e proteggendola da morte certa. Furono faccia a faccia.
Dopo il ringhio di dolore, il suo sguardo incrociò quello di lei che sorrise in maniera innocente.
Si fissarono a lungo.

Si consumò il peccato veniale. La bocca di lei baciò quella di lui con una forte energia che sorprese Abraxas, ma lui accettò il compimento dell’atto impuro.
Altre rocce più piccole si staccarono dai bordi dell’abisso e lo colpirono, ma lui la prese con forza trascinandola sotto di sé. Le fece da scudo e la portò fino alla parete rocciosa: “Arrampicati!” urlò alzandola verso l’alto: “Salvati!”
Lei intuì e risalì il dirupo aiutata dalla forza sovraumana di lui, ma la terrà di colpo tremò.
Lei fu spinta fuori dall’abisso mentre la crepa si richiuse inghiottendolo: “No!!”
Lei cadde in ginocchio.
Trattenne le lacrime e vide che tutto intorno a sé la guerra era all’epilogo.
Le forze del Signore riuscirono a respingere l’esercito degli inferi ancora una volta.
Quando il varco spazio - temporale si richiuse fece tremare ogni cosa e i diavoli non poterono chiamare altri rinforzi perdendo così la guerra.
La Legge Eterna non permetteva né la compassione né il perdono in questi casi e nessun diavolo sopravvisse nelle terre sacre.
Ogni angelo sopravvissuto alla guerra ebbe l’obbligo di confessarsi per legge, ma Aniel scelse di rifugiarsi nelle proprie biblioteche. Lontano da chiunque, nascose il proprio peccato, ma la mancata confessione deturpò il suo aspetto fisico ed invecchiò.
La creatura nata come frutto del suo peccato veniale era dentro di lei, al sicuro, ma il suo destino
non poteva compiersi in quelle terre sacre. Aniel studiò e trovò una soluzione.
Nel suo essere madre, sapeva che quella nuova vita poteva essere la propria redenzione e decise di attraversare i campi Elisi per raggiungere il cancello degli angeli custodi.
Aniel sapeva molto bene che era necessario un permesso per varcare quel cancello ma volle comunque attraversarlo per salvare la vita del proprio bambino infrangendo la Legge.
La sua caduta sulla terra fu devastante: le sue ali, spiegate per l’atterraggio, si bruciarono completamente prima di cadere in acqua.
Stremata, raggiunse la riva sabbiosa mentre l’alba sorgeva all’orizzonte.
Il suo corpo stava lentamente svanendo ma con un ultimo gesto di volontà, partorì il piccolo Nephilim sulla sabbia, al sicuro.
Il bambino pianse, lei svanì.
L’Ultimo Peccato Veniale di Mattia Bellunato 25/01/10 (Tutti i diritti riservati)


martedì 22 febbraio 2011

Il Progetto per l'Evoluzione dell'Uomo

Accadde nel futuro.
Il vicolo era completamente buio.
Albert svoltò l’angolo e si mise a correre a perdifiato evitando le numerose pozzanghere della lunga e tenebrosa via.
Raggiunse in pochi secondi il piccolo incrocio debolmente illuminato da un lampione mal funzionante e si fermò.
Riprese fiato.
L’odore di pioggia e di asfalto lo infastidivano ancor di più dei propri pensieri: “Dove? È in ritardo.”
Una notte senza ne luna ne stelle era al di sopra del giovane scienziato in borghese.
A quell’ora tarda, nella penombra, il suo lungo impermeabile ed il cappello nero avrebbero dovuto conferirgli un aspetto insospettabile, ma il suo viso giovane e sveglio lo avrebbero tradito nel caso si fosse trovato faccia a faccia con qualcuno.
Si appoggiò con il guanto di pelle nera al muro mattonato della palazzina mentre con l’altra mano agguantava una cartellina da documenti.
Si guardò in giro nervosamente finché dal buio non apparve un veicolo motorizzato che puntò i fari nella sua direzione. Albert si nascose nell’ombra e provò prima una leggera sensazione di mancamento, ma subito dopo si fece coraggio quando capì che si trattava del suo amico.
Il veicolo si affiancò ed Albert uscì dal buio. Sorrise quando intravide il suo miglior amico tirare giù il finestrino. Albert abbassò la testa e disse: “Sei in ritardo.”
Il pilota rispose con voce secca: “Lo so. Avanti. Monta.”
Isaac era suo coetaneo e amico fin dalle scuole obbligatorie ma non era debito alla scienza e agli studi come lui. Appena terminate le scuole, Isaac iniziò subito a lavorare con suo padre riparando impianti tecnologici industriali.
I due erano molto diversi anche fisicamente: Isaac portava dei vestiti di tre taglie più grandi di Albert che di fatto trovava enorme l’abitacolo di quel veicolo.
Le mani di Isaac, dure e callose, strinsero forte il volante: “Spero che sia davvero importante ciò che non hai voluto dirmi via web. Io domani ho la sveglia alle sei.”
“Si lo so. Ti chiedo scusa ma avevo bisogno di una persona fidata a cui lasciare questi.” Albert aprì leggermente la cartellina.
“Che cos’è quella roba?” il tono sospettoso e preoccupato di Isaac era prevedibile alle orecchie di Albert: “Vorrei che mi facessi un grosso favore. Te lo chiedo in cambio dell’aiuto che ti diedi tempo fa con la Soxos…”
“Ancora quella vecchia storia?” Isaac si voltò per un momento e vide lo sguardo serio di Albert, poi guardò la strada ed accese i tergicristalli: “Anche se non abbiamo più l’appalto, ti sono comunque debitore.”
“Vorrei che tu spedisca via web questi documenti al sito di Worldleaks.”
Un tuono esplose nel cielo e la pioggerellina si trasformò in un acquazzone.
“Di che si tratta?” Lo sguardo di Isaac era sempre più preoccupato: “Roba segreta?”
“Ovviamente si. Quindi conosci quel sito. Dentro alla cartellina troverai un foglio di istruzioni ed una scheda di memoria con il contenuto unico ed archiviato dei singoli file.”
Albert fece vedere un attimo la microscheda all’amico che rispose: “Cosa c’è lì dentro? Rischio la galera per questa faccenda?” Isaac si fermò al semaforo rosso che si distingueva a malapena tanta era l’acqua piovana sul parabrezza e selezionò la velocità massima per i tergicristalli.
“Tu non rischi nulla. Sono io quello che cercano e so di sicuro che arriveranno a casa mia questa notte con un mandato di perquisizione. Per questo io non posso inviare questo documento.” Albert nascose all’amico il fatto che la sua rete web fosse sottocontrollo da molti mesi ormai e che il suo aiuto era fondamentale per poter uscire da questa storia il più pulito possibile: “Qui dentro ci sono
tutte le informazioni sul progetto militare con cui ho collaborato fino ad ora.”
Il mezzo ripartì ed Albert continuò: “Il progetto col nome in codice HSSA è detto anche il progetto per l’evoluzione dell’uomo. Si tratta della nascita del primo Homo Sapiens Sapiens Artificialis ideato ed elaborato presso i laboratori della Soxos grazie ai finanziamenti del governo degli Stati Confederati e ai loro profitti  sull’acqua.”
“Profitti sull’acqua?” accennò con voce tesa Isaac.
“Si. Parlo dell’acqua della Soxos che tutti comprano ogni giorno dai vari distributori. Tutti pensano che quell’acqua sia del nostro paese, ma in verità è miscelata con l’acqua dell’Antartide. Come ben sai, il mercato dell’acqua è oggi il più fruttuoso in termini di profitto grazie al quale la Soxos ha potuto portare avanti questo progetto. Anche il governo ha ottenuto grossi profitti grazie alla tassazione sull’acqua in cambio della copertura top secret del progetto e della collaborazione militare.”
“Che cosa?” si stupì Isaac mentre cercava di concentrarsi sia sulla strada allagata che sul discorso.
“Dopo la nuclearizzazione dell’Antartide da parte nostra, per non lasciare quell’enorme giacimento d’acqua pura agli asiatici, la Soxos s’impegnò per la potabilizzazione dei blocchi di ghiaccio importati, ma in verità ti dico che la tecnologia per l’eliminazione delle radiazioni nucleari non è ancora perfetta.”
“Quindi mi stai dicendo che in realtà la febbre vegetale dei notiziari esteri…”
“È in realtà dovuta da alcune partite d’acqua della Soxos. Inoltre, grazie alla legge 666/99 votata proprio ieri in parlamento, il progetto HSSA potrà essere completato: i sistemi neuronali centrale e periferico potranno essere attivati e convertiti in sistemi nevralgici biomeccanici attivando così l’esemplare 001. Dovresti vedere quell’organismo: identico ad un qualunque uomo ariano, ma con un corpo ed una mente molto più evoluta della nostra. Una volta attivo, non dovrà ne nutrirsi, ne dissetarsi e neppure respirare grazie ai suoi captatori bionucleari ed avrà energia infinita grazie al sole e alle radiazioni termo – radioattive della terra. La sua mente sarà web - enciclopedica e sono stati evoluti anche i suoi organi di senso grazie ad una capacità audiovisiva in grado di percepire qualsiasi frequenza. Tu avresti dovuto sentire il discorso di presentazione del professor Wildman.
Secondo il professore, all’origine della storia umana qualcuno o qualcosa ci donò l’intelligenza affinché potessimo realizzare il progetto HSSA al fine di poter diffondere la vita in tutto l’universo conosciuto e senza i limiti biologici dettati da madre natura. La registrazione di quel discorso l’avrò ascoltata un centinaio di volte e la potrai trovare…”
“Basta così!” Isaac inchiodò il veicolo sotto l’acquazzone ed afferrò con mano tremolante un registratore vocale sotto il cruscotto del volante: “Mi dispiace Albert. Mio figlio è molto malato e la mia ex moglie mi ha lasciato senza un soldo. Ho dovuto farlo...” Disse con profonda tristezza.
All’improvviso la porta del passeggero fu aperta violentemente da due grossi agenti: “Albert Von Etenisin! Lei è in arresto. È suo diritto rimanere in silenzio, ogni parola che dirà potrà essere usata contro di lei.” I due lo presero di peso e continuarono: “Lei è in stato d’arresto per accesso non autorizzato a postazioni informatiche, abuso d’ufficio, tentata trasmissione a terze parti di informazioni riservate e protette dal segreto di stato.”
“No! Isaac no!!!” l’animo di Albert si spezzò e venne trascinato via.
Un tizio baffuto in uniforme gli strappò via la cartellina dalle mani e poi si affacciò al finestrino di Isaac: “Il nastro?”
Isaac tremò e gli allungò il registratore vocale: “È qui. Ora datemi i soldi.”
“Certo. Ha fatti un ottimo lavoro signor Wennot.” sorrise il militare.
Il Progetto per l'Evoluzione dell'Uomo di Mattia Bellunato 21/01/2011 (Tutti i diritti riservati).

martedì 15 febbraio 2011

Sotto un Cielo così Azzurro

Erica era una ragazza solare ma non le dispiaceva pensare alla solitudine.
I suoi giorni liberi erano più unici che rari ed Erica voleva in qualche modo staccare la spina da tutti i suoi impegni quotidiani e dalle persone da cui, ogni tanto, sentiva il bisogno di allontanarsi. Si divertiva a stare da sola.
Aveva delle file di libri a casa di cui non vedeva l’ora di scoprirne i segreti; inoltre aveva tantissimi lavoretti di casa da fare tra cui finire quel disegno ad acquarelli che poi sarebbe diventato il prossimo regalo di compleanno per la sua mamma.
La data odierna era ben calcata ed evidenziata sul suo calendario appeso in camera sua.
Fu in tarda mattinata quando si alzò dal letto con somma soddisfazione nonostante sapesse che l’ora fosse tarda. Arrivò a tentoni alla finestra per afferrare la cinghia delle tapparelle e tirò con forza.
La luce del sole esplose nei suoi occhi e quindi li socchiuse involontariamente per proteggersi ma doveva ritrovare i propri vestiti.
Erica osservò quindi l’orologio: “Le due del pomeriggio?” pensò confusa. Non aveva mai dormito tanto, anzi, dormiva sempre poco a causa degli studi.
L’appartamento era vuoto.
I coinquilini erano andati via nel fine settimana dalle rispettive famiglie ed Erica percepì un senso di libertà straordinario.
“Oggi potrei cucinarmi qualcosa di più raffinato del solito…” si bisbigliò per autoconvincersi ma poi scosse la testa e si preparò il suo pranzo standard: un’insalata di riso in scatola ed uno yogurt.
Dalla finestra della cucina Erica vide un cielo così azzurro che non gli parve vero.
La stagione calda era appena iniziata e la città le sembrò in pace con sé stessa senza il continuo trafficare di veicoli.
Quindi andò in camera, poi bagno, poi di nuovo in camera e poi, come se fosse presa da una frenesia incontrollabile, si preparò per uscire.
Fu poco curante nel prepararsi e finalmente si senti libera di indossare la sua tuta sportiva preferita che non avrebbe mai potuto indossare quotidianamente per le lezioni universitarie.
Prese il suo zaino per le gite fuori porta e ci mise dentro tre libri, due quaderni e tutto il contenuto della sua borsetta: “Oggi parco!” sorrise mentre cercava di sistemare il tutto in maniera logica ed ordinata.
Il parco era poco distante da casa sua ed ogni giorno, mentre andava a prendere il bus, volgeva il suo sguardo e il suo pensiero tra gli alberi e i prati. Ogni volta percepiva una specie di disagio o invidia nei confronti delle persone libere di passeggiare, correre, riposare in quell’immenso verde.
<<Evviva>> pensò quando varcò il marciapiede. Il parco era semideserto e questo la fece sorridere: <<Che bello>> e si tolse le scarpe per percepire, senza essere giudicata da nessuno, l’erba sotto i propri piedi.
Si rilassò come mai prima e camminò lentamente facendo però ben attenzione a dove mettesse i piedi per paura di calpestare qualcosa di pericoloso. Il solo pensiero le fece rimettere le scarpe.
Poi cercò un posto adatto a lei ovvero un luogo erboso con un poco di penombra delle fronde degli alberi.
Erica s’inginocchiò togliendosi lo zaino e controllò che il suo posto verde fosse pulito dalla sporcizia o che non ci fossero delle siringhe di drogati come suggeriva una sua vecchia paranoia e, quando capì di essere al sicuro, finalmente si rilassò.
Inspirò lentamente l’aria nei polmoni più volte e sollevò lo sguardo sotto quel cielo così azzurro che riuscì a rallentare tutti i suoi molteplici pensieri di preoccupazione quotidiana.
Erica si lasciò andare e si coricò prona immergendo anche la testa tra le decine di piccole foglie d’erba.
Si rilassò completamente.
Accese i suoi pensieri sulle percezioni di quel momento: la sofficità dell’erba sul corpo, il profumo leggermente pungente delle foglie d’erba, la leggera brezza di terra che spirava da terra verso il mare poco lontano.
Le venne in mente l’ultimo ricordo di un momento così rilassante e si rammentò divertita dello scorso inverno con gli amici a fare gli angeli sulla neve.
Lo stesso gesto fu istintivo e strofinò le braccia e le gambe sull’erba soffice per poi fermarsi come se volesse abbracciare l’intera terra.
Relax e pace.

<<Mi diresti il perché di tutto questo?>> percepì all’improvviso.
I suoi occhi si aprirono e non videro nessuno nei dintorni.
Il calore del sole, la leggera brezza e la sofficità dell’erba la rilassarono nuovamente.
<<Mi sapresti dire il perché di tutto questo?>> percepì di nuovo nella sua mente e si spaventò: “Ma cosa? Chi è?” Erica alzò il volto, ma non vide nessuno da nessuna parte: <<Che ci sia qualcosa tra i fili d’erba?>> pensò ad uno strumento tecnologico andato disperso da qualcuno e poi immaginò divertita tanti piccoli omini nascosti molto famosi in tutto il mondo.
Il suo pensiero si tramutò in preoccupazione quando udì nuovamente quella voce profonda e lenta: <<Saresti così gentile da aiutarmi? Sono io, mi sei sopra. Mi senti?>>
Erica si spaventò e si alzò per vedere se aveva schiacciato inavvertitamente qualcuno o qualcosa ma non vide nulla di strano: “Si…” la sua voce tremolante non nascose il suo allarmismo: “… ti sento.”
La ragazza mosse la testa concentrandosi sul da dove potesse provenire quella strana voce calma: <<Bene. Mi sapresti dire perché io ho perso così tanti capelli negli ultimi tempi?>>
Erica allargò le proprie orecchie e, quando percepì quella voce nella propria testa senza poterla udire, riuscì a dire solo qualche parola: “Ma tu chi sei? Dove sei?”
<<Io sono tutto ciò che stavi abbracciando…>>
“Cosa?” si sconvolse Erica e provò a pensare: <<Mi vuoi dire che tu sei…>>
<<Già. Esattamente. Ora. Potresti gentilmente dirmi perché io ho perso così tanti capelli nell’ultimo periodo?>>
“Non può essere. Sto forse sognando?” Erica affollò come sempre la propria mente di troppe domande simili a questa, ma il mondo le rispose sempre in maniera pacata e rassicurante: <<No. Non stai sognando e non sono il frutto della tua immaginazione. Tu possiedi ora la volontà di ascoltarmi, tutto qui.>>
Ad ogni parola, Erica provò a concentrarsi su quella voce e cancellò all’improvviso ogni ansia: <<Ma perché? Voglio dire: perché io?>>
<<Io a questo non ho risposta. Sei tu che la possiedi o che la puoi ottenere. A tal proposito, tu sapresti dirmi il perché ho perso così tanti capelli nell’ultimo periodo?>>
<<Capelli?>> Erica era sorpresa sia dall’insolita domanda e sia dal fatto che quella conversione avvenisse solamente nella sua mente ed incominciò a ripensare di essere diventata matta oltre al fatto che sarebbe dovuta andare dal suo medico curante e che avrebbe dovuto quindi prenotare e che…
<<Basta! Si. Ascoltami. Capelli! E non stai diventando matta! Sono io che sto diventando matto ad ascoltarti! Sto cercando di chiederti una cosa sola.>>
<<Ma io non capisco la tua domanda…>> Erica era confusa e le salì l’ansia quando capì di essere
apparsa poco sveglia e non all’altezza della situazione: <<… tu hai dei capelli?>>
<<Certo. Potrai vederne uno poco lontano da te.>> Allora Erica alzò lo sguardo e vide l’albero che proiettava la propria ombra su di lei.
<<Perché nell’ultimo periodo ne perdo sempre di più? Soffrirò mica di allopatia?>>
Erica capì la domanda e s’irrigidì al pensiero della risposta.
<<Me li avete tagliati voi? Ma perché così tanti?>>
<<Non gli posso dire la verità…>> le sfuggì il pensiero.
<<Ma io la voglio sapere>>
Erica a tal parole si spaventò e non si trattenne: <<Li usiamo per costruire, fare carta o mobili o altre cose utili.>>
<<E perché la mia acqua diventa improvvisamente nera? A volte mi appaiono delle inquietanti macchie nere. Perché?>>
Erica si sfogò: <<Senti. Abbiamo molte colpe ma io con tutto questo non c’entro nulla!.>> pensò con forza.
<<Io non capisco. Perché?>> percepì mentre continuava di discolparsi: <<Ci sono stati degli incidenti petrolifici ma noi non avremmo mai voluto che accadessero delle cose del genere. Tu non puoi curarti?>>
<<Io? Io non ho certo la forza di riparare a tutti i vostri danni. Certo mi sono infuriato più di una volta pur di favi capire di smetterla, ma tutto ciò non mi ha dato nessuna risposta positiva. Per questo sto comunicando a te in questo momento.>>
<<Perché a me tutto questo?>> si chiese immediatamente Erica diventando consapevole che nulla avrebbe potuto nascondere al mondo.
<<Ti ho già spiegato che la risposta è dentro di te. Tu possiedi una percezione delle cose fuori dal comune ed hai la capacità potenziale per trasmettere le mie parole. Io sono vecchio, molto vecchio, ho girato intorno al sole per quattro miliardi e mezzo di volte e non possiedo più le energie per rimediare alle vostre stupide scelte. Io vi ho visto nascere, crescere e la vostra evoluzione è stata frutto di un mio desiderio: ho sempre desiderato che qualcuno potesse prendersi cura di me e voi avete quel potere. Potresti diffondere per me questo messaggio?>>
Erica prese le sue cose e fuggì via.


Sotto un Cielo così Azzurro di Mattia Bellunato 18/01/2011 (Tutti i diritti riservati).